la storia

Addio a Palmiro Da Re, dalla fabbrica ai ristoranti

Se ne va un pezzo importante di Don Bosco: è morto a 77 anni il ristoratore partito dalla tuta blu da operaio. I funerali venerdì 3 maggio alle 9.30 alla Madre Teresa di Calcutta



BOLZANO. Nella sua vita, piena, intensa, ricca di affetti profondi e amicizie solide, Palmiro Da Re è stato tante cose: operaio, sindacalista, cuoco, ristoratore, imprenditore visionario. E anche un "pezzo" importante di Don Bosco, il "suo" quartiere. Sempre un passo avanti, Palmiro. Mille idee e progetti da realizzare. Poco importava se non c'erano i soldi, se le banche alzavano un muro di condizioni, ipoteche e paletti. Lui il coraggio ce l'aveva. Rischiava. Lavorava come un mulo e le cose, alla fine, andavano al loro posto come le tessere di un mosaico. Basterebbe fare un elenco dei ristoranti che ha aperto e lanciato: il Rugantino, l'Alumix, il Noisteria quando nessuno se lo pigliava…

n'è andato all'improvviso Palmiro da Re, a 77 anni. E quando un uomo così non c'è più, il vuoto fa davvero male. «Il vulcano si è spento», dice con la voce rotta dall'emozione il figlio Christian. Del vulcano, il padre aveva tutto: la forza, l'autorevolezza, l'energia travolgente che sapeva trasmettere a chi lavorava con lui. La moglie Vanda Zago, compagna di mille imprese, che per anni è stata la mente razionale dell'azienda Da Re. E, in tempi più recenti, i figli Sabrina e Christian che lo hanno affiancato nella grande avventura del recupero dell'Alumix (un'impresa in cui pochi credevano nel lontano 1987) e poi alla guida del ristorante del Techpark.

«La parola giusta per definire nostro padre - continua Christian - è "creativo". In ogni cosa vedeva un'opportunità, una sfida. Girava il mondo e assorbiva come una spugna idee e suggestioni». Entusiasta, curioso, infaticabile. «Fosse stato per lui - sottolinea Sabrina- avrebbe aperto locali in ogni angolo del pianeta». Già: il bar, il ristorante. Per Palmiro non era solo "lavoro". Era relazioni, gli amici, l' amore per la cucina. E non dimenticare mai da dove sei partito. «Sì - annuisce Christian - perché lui non ha mai smesso di portare la tuta blu. Gli anni da operaio in Zona gli erano rimasti incollati come una seconda pelle». Sempre dalla parte dei lavoratori.

Sciangai

Ma c'è ancora un tassello da aggiungere per descrivere fino in fondo Palmiro Da Re: Sciangai. Inteso come Don Bosco, quartiere della Bolzano italiana, proletaria e contadina, dove era nato e cresciuto. «In un tempo e in un luogo - ricordava - in cui ci si poteva svegliare ancora con il canto del gallo. Se non era il tuo, era certo quello del vicino. Le nostre case erano chiamate casette. La scuola San Filippo Neri era per tutti "le scolette". E anche l'unica chiesa del quartiere, all'angolo tra via Palermo e via Milano, era ovviamente "la chiesetta"...». Da Re aveva raccontato tutto in "Antologia di Sciangai", un piccolo prezioso libro di memorie scritto nel 2021 dopo il covid. Partiva proprio dall'infanzia e dall'adolescenza vissute tra le Semirurali,«dove la paga da operai veniva integrata con l'orto, le galline e i conigli». I bidoni dell'immondizia venivano svuotati nell'Isarco, la fermata della Sasa era un avvenimento e i ragazzi si davano l'appuntamento al campo di concentramento. «Lo chiamavamo così, lager, senza ben conoscere il significato di quelle parole - raccontava - e poi, quando mio padre, con una certa reticenza, mi spiegò la tragedia umana che si era consumata dietro quel muro, provai un dolore così forte che non ci misi più piede». Nel libro ridava voce e vita a personaggi conosciutissimi nel rione negli anni '50 e '60, ma che oggi rischiano di svanire nella polvere. Come la a misteriosa "Signorina" che viveva in una cella dell'ex campo di concentramento, e insegnava ai bambini i rudimenti della grammatica tedesca per 100 lire a lezione. Teneva sempre i soldi stretti nel pugno. E quando la mamma di Palmiro le regalò un cappello caldo e una borsetta, lei tenne solo il cappello, perché i soldi erano la sopravvivenza e voleva stringerli in mano: aveva paura di perderli o glieli rubassero. «Ma nessuno nel quartiere avrebbe mai permesso che le fosse toccato un solo capello». Poi c'era "Saponina", che vendeva detersivi, brillantina e sapone per bucato. Le donne lo chiamavano così, "Saponinaaaa", affacciandosi alle finestre se avevano bisogno di qualcosa. E il barbiere ambulante, Romano, che si portava sulla bicicletta gli attrezzi del mestiere, tagliando i capelli a bambine, bambini e operai, seguendo il ritmo delle sirene delle fabbriche. «Sciangai - ricordava Palmiro- era un rione saldato alla Zona industriale. C'era chi faceva parte dell'aristocrazia operaia, e lavorava in fabbriche come le Acciaierie. E chi invece veniva chiamato a giornata, con lo stress di non sapere quanto avrebbe portato a casa a fine mese».

Una vita difficile. «Lo Statuto dei lavoratori ancora non c'era, e il padrone poteva licenziare come e quando voleva. Nei periodi di crisi, alle casette arrivavano le buste gialle dalle aziende, che significavano meno ore di lavoro e meno soldi per la famiglia». Ma "Sciangai" aveva mille risorse per aiutare chi era in difficoltà. Palmiro nel libro lo raccontava molto bene: il mutuo soccorso tra le famiglie, i libretti dove si segnava con la promessa di pagare, gli orti che si trasformavano in piccole officine per bici e auto. Ognuno si inventava un'altra attività per campare. Gli operai si riscoprivano muratori, meccanici, piastrellisti…

E anche la parrocchia: la Chiesa di Don Bosco, costruita dagli stessi operai, che con l'oratorio, il cinema e i campi da calcio, il sabato e la domenica, accoglieva fino a mille bambini e ragazzi.

Dal tornio al ristorante

I figli di quelle famiglie, come Palmiro Da Re, hanno poi cercato altre strade. Si sono aperti al mondo anche grazie ai sacrifici dei genitori. Il papà di Palmiro era un pescatore della zona di Chioggia, arrivato a Bolzano per lavorare alla "Feltrinelli Masonite". «Per lui - ricordava Da Re - la fabbrica era la sicurezza. Ma io volevo altro, un'attività tutta mia. Volevo aprire un ristorante, essere autonomo, chiudere e aprire tutti i giorni un locale in cui ci fosse il mio nome scritto da qualche parte». Il riscatto sociale senza dover chinare la testa davanti al padrone. Palmiro inizia a lavorare prestissimo, ancora bambino, appena finite le elementari. Fa tantissimi mestieri: l'apprendista, il saldatore, il gruista... Approda all'aristocrazia operaia con l'assunzione in Lancia, dove è anche delegato della Uilm a fianco di sindacalisti come Guido Laconi e un giovanissimo Toni Serafini. Ma il giorno che il capo reparto nega per l'ennesima volta le tute nuove dotate anche di dispositivi anti-infortunistica, Palmiro decide di averne abbastanza. Si presenta in fabbrica con il vestito buono, si spoglia e va al tornio in mutande. Il capo va su tutte le furie. «Di vestito ne ho solo uno - risponde lui sereno -: o mi dai la tuta o continuo in mutande».

Il giorno dopo arrivarono 1.200 tute nuove fiammanti, ma Palmiro perse il lavoro. Era il 1975: aveva 30 anni, una moglie e due figli piccoli. Ma anche una grande tenacia. Lavoro, lavoro e ancora lavoro. E le 150 ore per prendere la licenza media necessaria per l'iscrizione al Rec, il Registro esercenti commerciali.Sempre con quel chiodo fisso: un'attività sua. Vende polli con un camion-grill ai mercati, prende in gestione distributori di benzina, discoteche, bar, sempre insieme alla moglie Vanda.

Poi, finalmente, il sogno di una vita: il ristorante. Il "Rugantino" a San Giacomo e quindi l'Alumix di Bolzano, che insieme ai figli Sabrina e Christian trasforma da dopolavoro della Zona in un ristorante frequentassimo da tutta la città. All'inizio con notti insonni per il mutuo chiesto alle banche, per le cambiali e i soldi ai fornitori che era difficile trovare. Ma lui tenne duro e ce la fece. E ancora: un resort in Kenya e altre attività in Croazia... «Una vita densissima. Sempre con quel senso di comunità e di attenzione ai rapporti umani inciso nel dna della nostra Sciangai», ricorda Michele Di Puppo, suo amico fraterno. Negli ultimi anni anche la gestione della Noisteria. Dalla vecchia Zona delle fabbriche al Parco tecnologico, delle schiere di operai anneriti dagli altiforni alla tecnologia del nuovo distretto dell'innovazione, dove i figli e i nipoti di quei lavoratori oggi fondano le startup. «In tutti questi anni - scriveva Palmiro alla fine di "Antologia di Sciangai" - i miei figli sono diventati ristoratori. Mentre io mi sto fermando perché, di anni, ne ho ormai 75». Ma, raccontando, Palmiro si era accorto di una cosa: «Che in realtà con questo libro non facevo un consuntivo. Non mi guardavo indietro, ma ancora mi proiettavo in avanti. Quello che è stato potrà ancora essere...». Una filosofia che ora porteranno avanti con amore, gratitudine e dedizione Christian e Sabrina. (lf)













Altre notizie

Attualità